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Patagonia, azienda statunitense specializzata in abbigliamento sportivo e outdoor è stata la protagonista del primo appuntamento di “Greeners | We speak Tech, we dream Green. Do you?”, nuovo format di PoliHub dedicato a mentor, startup, expert, professionisti e a tutti i member della community. Stefano Bassi, Environmental Community Organizer Italy, ha raccontato la storia di un brand, che con le sue giacche voleva cambiare il mondo.

“We’re in business to save our home world planet”: è la mission di Patagonia, una “piccola” azienda attiva nel settore tessile – un’industry che da sola produce 1,7 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno – che ha scelto di non vedere nel profitto l’unico obiettivo ma di guardare a un bene terzo: la salvaguardia del pianeta. Stefano, avete scelto di impegnarvi per l’ambiente quando di questi temi non c’era ancora consapevolezza. Perché?

Nella visione che ha sempre guidato Yvon Chouinard, sin dall’inizio delle sue esperienze “imprenditoriali”, la tutela delle aree naturali ha sempre avuto un posto di rilievo. È sempre sembrato insensato per un’azienda outdoor non lavorare per proteggere le zone in cui poter praticare le attività per cui produciamo abbigliamento. Inoltre, è stato chiaro fin da subito come non fosse possibile fare business su un pianeta morto. Non si tratta solo di sentimenti filantropici, per così dire – che pure ci sono -, ma anche di una visione del modello di business a lungo termine.

Come coniugate l’essere un’azienda responsabile con il fatto di essere comunque un’azienda, quindi, con degli obiettivi di fatturato?

Naturalmente fare business su scala praticamente globale impone di dover far fronte a alcuni compromessi, e non ci ha mai sfiorato l’idea di essere perfetti. Il profitto è d’altra parte funzionale alla seconda parte della mission, la salvaguardia del pianeta, e dal punto di vista di un’azienda le due cose sono imprescindibili. La responsabilità consiste nel conoscere il proprio impatto, a vari livelli – ambientale, sociale – e lavorare per esser parte della soluzione invece che del problema.

Nel tuo intervento hai affermato che Patagonia non fa solo sostenibilità ma economia rigenerativa. Cosa intendi?

Tipicamente, il termine sostenibile indica un mantenimento dello status quo, perché il modello di business sia percorribile alle condizioni attuali dal punto di vista ambientale, sociale, economico e culturale. L’accezione rigenerativa implica invece la volontà di apportare un contributo positivo, tanto che il nostro business non solo non abbia un impatto neutro, ma addirittura positivo sul pianeta.

Da anni, ogni giorno, Patagonia costruisce e alimenta una comunità di attivisti. Patagonia stessa si considera una “compagnia di attivisti”. Quanto contano le persone per voi? Come fate a coinvolgere la vostra community?

Un’azienda che si voglia poter definire attivista non può prescindere dalle persone che la vivono e dalla community di chi la segue, come cliente o come fan. Ci siamo da subito resi conto che per fare la differenza tutti devono fare la propria parte, le aziende per quanto compete alle aziende e le persone per quanto compete al singolo, e essendo le due cose imprescindibili, cerchiamo di lavorare perché ttti gli attori partecipino al movimento attivista, a tutte le scale e a tutti i livelli.

Cosa suggeriresti a uno startupper che muove i primi passi sul mercato per riuscire a crescere riducendo al minimo il suo impatto sull’ambiente?

Credo che mediamente le startup, essendo in larga parte già nate con una visione molto più attenta ai temi ambientali e sociali, e agendo a scale più ridotte, siano spesso più “sostenibili” di quanto possiamo esserlo Patagonia o qualsiasi altra azienda delle stesse dimensioni. Naturalmente il tema della crescita implica, come dicevo, il doversi confrontare con compromessi spesso difficilmente superabili. Il tema principale è sempre quello di immaginare quale possa essere la soluzione a un problema che andremo a creare – e farlo possibilmente in anticipo.


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