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La narrativa popolare ci ha abituati a pensare alle startup come a organizzazioni costituite da persone geniali e sregolate, accomunate da una visione del mondo radicale e spesso opposta alla normalità delle cose.

Nell’immaginario collettivo lo startupper è simile all’artista. Così come immaginiamo pittori e scrittori realizzare le loro opere attraverso un processo creativo, misterioso e quasi “magico”, allo stesso modo immaginiamo gli imprenditori delle startup costruire qualcosa di incredibile e meraviglioso attribuendo la loro virtù a un inspiegabile quanto effimero “spirito imprenditoriale”.

Tutto ciò è falso: è una semplificazione della realtà che, in maniera romantica e strumentale, riduce il successo o l’insuccesso delle avventure imprenditoriali a un mero risultato da attribuire ad elementi casuali e mai riproducibili.

Un metodo chiaro e rigoroso

La peculiarità del fare startup prende, invece, le mosse dalla scoperta che il lavoro dell’imprenditore che decide di fondare una startup è un lavoro scandito da modi e tempi ben precisi, derivati da una metodologia chiara e rigorosa. La riproducibilità non è tanto del risultato, in quanto il successo non può essere mai garantito, ma del processo che porta la squadra imprenditoriale a dimostrare, passo dopo passo, le proprie ipotesi di business. Ricorda qualcosa?

L’approccio attraverso il quale i team delle startup costruiscono il loro business è molto simile a quello attraverso il quale si sviluppano i progetti di ricerca. Data un’ipotesi iniziale, ci si avventura alla scoperta del mondo per capire se quello che si è postulato trova un riscontro empirico nell’universo. Esattamente come nei gruppi di ricerca questo non avviene mai in solitaria: l’imprenditoria, come la scienza, è sempre uno sforzo collettivo.

Gli startupper ragionano esattamente nello stesso modo: hanno una serie di ipotesi iniziali che confutano o confermano al procedere del loro progetto. L’intuito e lo spirito imprenditoriale hanno un ruolo marginale, o meglio secondario rispetto all’applicazione di rigidi protocolli metodologici. È sicuramente necessario che, almeno in nuce, la squadra abbia una scintilla imprenditoriale, ma non ha alcun valore se non accompagnata da una conoscenza teorica ed empirica delle metodologie startup.

Quando i gruppi di ricerca che seguiamo realizzano tutto questo, ci guardano con due occhioni da cerbiatto come a dire “ma allora se le cose stanno così non è mica tanto diverso da quello che ho fatto fin ora: ce la posso fare!”.

Negli anni ne abbiamo visti tanti che da tecnici ossessionati dal loro prodotto, spaventati dall’idea di dover intraprendere, si trasformavano gradualmente in ottimi imprenditori. Il nostro ruolo è stato proprio fargli capire che questo passo era una semplice applicazione di metodo e rigore che era stato la loro guida per tutta la carriera universitaria e accademica.

Considerando il delinearsi di nuove frontiere dell’innovazione, la drastica riduzione dell’attrattività delle posizioni in ambito accademico e il sorgere del Deep Tech come nuovo paradigma dell’universo startup, sembra sempre di più che fare startup sia l’alternativa più promettente per tutte le ricercatrici e i ricercatori che desiderano avere un profondo impatto sul mondo.

A cura di Giuseppe Nicola Isgrò e Francesca Sapuppo