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È stato Antonio Ghezzi, Direttore dell’Osservatorio Startup Hi-Tech della School of Management del Politecnico di Milano, ad inaugurare il ciclo di incontri del 2017 del Club di Mentor di Polihub. Dopo i saluti di Claudia Pingue, COO di Polihub e l’introduzione di Stefano Mainetti, CEO PoliHub che ha poi lasciato la parola a Stefano Mizio, Head of Mentorship Program di PoliHub, un’atmosfera ricca di stimoli ha caratterizzato l’appuntamento, dal titolo “Dinamiche imprenditoriali e lo scenario delle startup hi-tech finanziate in Italia” che sì è tenuto lo scorso 25 gennaio in Sala Arena.

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Abbiamo colto l’occasione per approfondire con Ghezzi alcuni degli spunti emersi dal workshop.

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Qual è lo stato di salute delle startup italiane?
Il 2016 è stato un anno positivo per il comparto: gli investimenti in capitale Equity di startup hi-tech ammontano a 182 milioni di euro, con una crescita del 24% rispetto al valore totale consolidato rilevato nel 2015. Naturalmente si tratta ancora di una stima che integra gli effetti di due componenti: gli investimenti da parte di attori formali, (fondi di venture capital indipendenti, fondi di corporate venture capital aziendali e finanziarie regionali) e gli investimenti effettuati da attori informali (venture incubator, family office, club deal, Business angel, piattaforme di equity crowdfunding e investimenti da parte di aziende non strutturati in un fondo cvc).
Il mondo formale sfonda per la prima volta il tetto dei 100 milioni di euro, crescendo del 33% (ossia di 25 milioni di euro) rispetto al 2015. Un incremento significativo, dovuto principalmente alla nascita di nuovi fondi di investimento dedicati o con forte vocazione alle startup. Un messaggio positivo importante che mostra come gli attori formali tornino in maniera decisa a trainare la crescita dell’ecosistema.
La seconda componente, che aggrega il variegato mondo degli investitori informali, vede anch’essa un incremento significativo, passando dai 71 milioni di euro del 2015 agli 81 milioni di euro del 2016 (+ 14%). Anche qui si riscontra un’elevata dinamicità, grazie al ruolo giocato dai club deal e dagli angel network, alla crescente attenzione da parte di family office e aziende per investimenti in startup e all’apporto delle iniziative di crowdfunding.
A questo dato complessivo, si può aggiungere un’ulteriore componente, data dagli investimenti in startup hi-tech italiane provenienti da attori internazionali. Una prima stima di tali investimenti per il 2016 è pari a circa 35 milioni di euro che, sommati alle componenti precedenti, porterebbero il valore complessivo dei finanziamenti ricevuti dall’ecosistema a 217 milioni di euro.
Il 2016 si rivela dunque anno in cui gli investitori internazionali iniziano in maniera sostanziale e più continuativa a fornire sostegno alle startup italiane di qualità: questa dinamica, in crescita rispetto allo scorso anno, potrà e dovrà costituire una direttrice di sviluppo essenziale per dare una dimensione globale all’ecosistema nazionale.

Qual è lo scenario delle startup italiane?
Dai nostri dati, sono 90 le startup che, a consuntivo 2015, ricevono finanziamenti da attori formali (rispetto alle 79 del 2014): di queste, il 75% afferisce al comparto Digital, il 17% al Life Science e Biotech e il 7% al Cleantech & Energy (il restante 1% mostra posizionamento in altre aree hi-tech).  Oltre a questi macrocomparti, l’analisi mostra come emergano delle verticalità nell’eco sistema startup, di norma concentrate attorno ai settori tradizionali del “made in Italy” (rivisitati in chiave hi-tech e Digitale) come il Foodtech e il Winetech, il Fashion, il Tessile avanzato e il Turismo digitale; ma sempre più spesso si assiste alla nascita di realtà ad altissimo potenziale in ambito Life Science e, con frequenza minore, nel cleantech & energy.
Rispetto alla distribuzione geografica, è interessante riscontrare come aumenti il peso percentuale sugli investimenti effettuati dagli attori formali in Sud e isole, che passa dal 30% del 2014 al 36% del 2015, ma nello stesso periodo si riduca il numero di startup finanziate nel Mezzogiorno. Si conferma invece il Nord Italia come centro nevralgico dell’ecosistema, sia in termini di finanziamenti ricevuti (58%) sia di numerosità di startup finanziate (65%).
Aumenta anche il taglio medio dei finanziamenti da parte di attori formali, con un 7% delle operazioni oltre i 3 milioni di euro (rispetto al 4% del 2014); oltre il 70% dei round ha tuttavia una dimensione inferiore al milione di euro.
L’Osservatorio ha scelto di focalizzarsi su startup hi-tech finanziate, un criterio che deriva dalla nostra esplicita volontà di considerare gli investimenti ricevuti come misura concreta di qualità e valore delle startup. Questa prospettiva si rivela particolarmente interessante quando confrontiamo il nostro campione di riferimento con quello più ampio delle startup innovative registrate dalla sezione speciale del Registro delle Imprese delle Camere di Commercio. Il numero delle startup innovative del Registro aumenta significativamente, tuttavia, all’aumento della quantità non sempre corrisponde un aumento della qualità.

Parliamo di performance. Com’è la situazione in Italia?
Nel 2016 prosegue quel consolidamento e quella sistematicità già evidenziata già nel 2015 per quel che concerne il ciclo di vita delle startup hi-tech finanziate. Tuttavia, la mancata crescita sostanziale nel numero di grandi operazioni di finanziamento, e soprattutto di exit, rappresenta un ulteriore segnale che l’atteso rinascimento – o svolta strutturale dell’ecosistema – non è ancora del tutto arrivato. In termini di fatturato generato, si conferma una crescita del valore assoluto, che raggiunge i 247 milioni di euro complessivi nel 2015 (+ 34% rispetto al 2014). Anche i dipendenti assunti e presenti a bilancio aumentano in termini sia assoluti che relativi, raggiungendo le 2420 unità nel 2015 (+ 55% sul 2014).

E come vanno le nostre startup all’estero?
Innanzitutto sarebbe opportuno non parlare più di ecosistema italiano delle startup ma di ecosistema delle startup italiane nel mondo. L’internazionalizzazione costituisce un’ulteriore dinamica, anche a fronte del crescente peso specifico degli investimenti in arrivo dagli attori internazionali e rappresenta una necessità per molte startup italiane, che si trovano ad operare in un mercato che si caratterizza per ridotte dimensioni, limitata propensione e ricettività all’innovazione da parte dei clienti e un ancora scarso apporto di capitale equity da parte di investitori e aziende.
Questo processo d’internazionalizzazione porta ad alcuni interessanti casi “ibridi”, con nuove imprese che aprono sede legale all’estero ma mantengono quartier generale di ricerca e sviluppo e operativo in Italia, a testimonianza della qualità del capitale umano nel nostro paese.
Complessivamente, non è ancora possibile parlare del 2016 come anno di “svolta strutturale”. Dati alla mano, risulta al contrario più corretto parlare di una serie di segnali positivi tangibili che, se sfruttati sinergicamente e amalgamati per mezzo di corretti interventi su tutti i livelli (politico e privato, formale e informale), potranno rappresentare un ulteriore passo in avanti per l’universo delle startup italiane, inteso come sistema “poroso” e sempre più aperto all’internazionalizzazione e alla commistione con il mondo delle aziende consolidate.

Ultimo tema: l’innovazione. Come se la cavano le imprese su questo fronte?
In questi ultimi due anni abbiamo assistito a una trasformazione epocale nei paradigmi competitivi delle imprese, effetto soprattutto della famigerata digital disruption che ha trascinato molte imprese verso il successo e molte altre verso il declino. Tutte però hanno dovuto prendere coscienza di un inesorabile cambiamento culturale in atto e della necessità di saper perseguire l’innovazione, in primis digitale, in modo agile e veloce, in un contesto che permane di risorse limitate.
La Survey annuale della School of Management del Politecnico di Milano ha raccolto 205 risposte di chief information officer e chief innovation officer di aziende italiane e di pubbliche amministrazioni per comprendere come evolve la gestione dell’innovazione digitale. Attraverso le risposte ricevute si è cercato anche di capire qual è il ricorso all’innovazione aperta e qual è il possibile ruolo dell’ecosistema startup.
La gestione dell’innovazione digitale rimane la priorità per le imprese italiane e per la Pubblica. Amministrazione. Questo fenomeno segna il nuovo ruolo del digitale nelle aziende e anticipa anche che, se da un lato è alta la consapevolezza del valore strategico dell’innovazione digitale presso le aziende, dall’altro si aprono nuove sfide per rivederne la governance e i possibili modelli organizzativi.
Nonostante ciò, la gestione dell’Innovazione Digitale è ancora un processo faticoso per le imprese, e le cause sono principalmente interne alle organizzazioni. Oltre a mancare competenze e ruoli deputati alla gestione dell’innovazione digitale, nelle imprese scarseggia anche la consapevolezza che il successo di quest’ultima dipende in primo luogo dalla presenza di un approccio imprenditoriale e di una cultura del rischio e dell’errore, tipiche del vero Innovatore. Vincere questa sfida può dare consistenti frutti. Non si tratta solo di ottenere risultati di business tangibili. Le imprese che hanno iniziato a lavorare con le startup hanno trovato, non solo fornitori innovativi, veloci e flessibili, ma un nuovo entusiasmo da parte dei propri collaboratori nel condurre i processi di innovazione e nel rendersi promotori e imprenditori di soluzioni innovative. L’Open Innovation può diventare quindi una leva di rinnovamento culturale capace di dare nuova linfa vitale alle nostre imprese partendo innanzitutto dalle persone.

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