di Stefano Mainetti
Non è più possibile fare innovazione come si faceva in passato, sfruttando esclusivamente le idee e le tecnologie proprietarie sviluppate nei propri laboratori o all’interno della propria organizzazione aziendale: sono poche le attività che le imprese di successo del nuovo millennio conducono esclusivamente all’interno dei propri centri di ricerca e sviluppo, preferendo affidarsi a un esteso network di attori esterni (talvolta anche concorrenti) al quale attingere nuove idee, sviluppare nuovi prodotti e generare nuove fonti di ricavo.
Le aziende innovano e accrescono le proprie competenze tecnologiche attraverso il ricorso e l’adozione di idee o risorse al di fuori dei propri confini. Gestire progetti di Open Innovation rappresenta oggi una cruciale opportunità e un’importante sfida manageriale che, inevitabilmente, comporta dover affrontare ostacoli, rischi e complessità: innovare significa avere le idee chiare sulla direzione da seguire e essere in grado di muoversi all’interno di una molteplicità di attori, relazioni e strumenti eterogenei. Il rischio di disorientamento o peggio, di fallimento è elevato. Si tratta di una difficoltà gestionale acutizzata dall’intrinseca eterogeneità degli attori coinvolti: università, centri di ricerca, startup, incubatori, per esempio. Influisce anche la moltitudine di vie percorribili per raggiungere il medesimo scopo.
In questo scenario complesso e variegato, le startup giocano un ruolo fondamentale, grazie alla loro naturale capacità di immaginare prodotti e servizi innovativi e di poterli sperimentare rapidamente e concretamente portarli sul mercato. Una centralità quest’ultima, avvallata dai dati: nel solo 2017, ci sono stati 1791 investimenti corporate in startup a livello globale, per un totale di 31,2 miliardi di dollari con un incremento del 15% rispetto al 2016. (Fonte: CB Insights).
Le dinamiche relazionali tra aziende consolidate e startup evidenziano complessità dovute alla struttura delle prime, che con difficoltà si adeguano a collaborare al fianco delle seconde che sono realtà imprenditoriali fluide e agili, con logiche, meccanismi e obiettivi molto diversi. Un possibile approccio, per una corporate, può essere quello di lanciarsi in questo mondo con un approccio estemporaneo, basato sull’intuito o sulla casualità. Più razionale e produttivo, a mio parere, è quello di dotarsi di un chiaro indirizzo strategico, che introduca gradualmente l’azienda al mondo delle startup e degli ecosistemi d’innovazione, individuando man mano, gli strumenti e gli approcci che meglio si adattano alla propria capacità e maturità rispetto al tema.
Questo senza negare l’assunto che ogni azienda debba trovare la propria via e può farlo all’interno di un percorso evolutivo graduale caratterizzato da tre livelli (Discovery, Empowering ed Exploitation) e da una sequenzialità crescente in termini di investimenti e competenze organizzative e gestionali. Occorre, in sintesi, permettere ai manager di sperimentare e acquisire le necessarie competenze e gli strumenti per agire con successo.