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In una recente puntata di Smart City – Voci e luoghi dell’innovazione, in onda dal lunedì al venerdì alle 20.50 su Radio 24, Maurizio Melis ha intervistato Stefano Mainetti.

PoliHub è l’incubatore e acceleratore del Politecnico di Milano: secondo il World Ranking Business Incubators di UBI è il secondo d’Europa e il terzo nel mondo per impatto, cioè per capacità di generazione di posti di lavoro high-tech e rinnovo della classe imprenditoriale del Paese in relazione alla disponibilità di capitale di rischio. Quindi questo indicatore misura la capacità di trasformare gli investimenti in un impatto concreto. Partiamo da questo numero…
Non è numero positivo, forse il punto più critico per la nostra nazione ossia la capacità di avere un’industria di capitali di rischio che favorisca l’imprenditoria hi-tech dove effettivamente si arriva con un prototipo o un’idea e dove occorrono investimenti per andare a testare se questa idea ha mercato e se c’è anche quella cultura per farla diventare un’azienda di successo.

E come siamo messi noi?
Purtroppo i numeri ci dicono che i capitali di rischio disponibili in Italia sono circa un decimo rispetto a quelli di Francia e Germania, un ventesimo di quanto si fa in Inghilterra e, se dovessimo andare a vedere solo la Silicon Valley, un trecentesimo. Anche la Cina oggi sta superando la Silicon Valley. Questa effettivamente è un’area di deficit di mercato dove però le cose stanno migliorando, sta accadendo qualcosa anche in Italia.

Ma veniamo al vostro lavoro che è quello di prendere buone idee e trasformarle in impresa. Questo è il compito degli incubatori ma, esattamente, PoliHub, che cosa fa?
Per far questo lavoriamo su tre grandi pilastri: occorre prima di tutto avere un flusso in ingresso di proposte elevato. Questa è l’attività di scouting. In PoliHub l’anno scorso abbiamo visto e valutato 1200 idee e ne abbiamo incubate 41. Insomma, un deal flow di qualità. La seconda cosa che occorre fare è creare le migliori condizioni possibili per far crescere una startup. Non ci sono delle regole magiche ma se si condensano in un distretto di innovazione, come quello ad esempio, del Politecnico di Milano, dove ci sono 4.000 tra professori e ricercatori e dottorandi che studiano lo stato dell’arte della tecnologia, 250 laboratori sperimentali high-tech, dove c’è una cultura dell’innovazione quasi nativa nei 43.000 studenti, ecco lì ci sono le condizioni favorevoli. Lì oggi stiamo investendo anche con dei capitali e stiamo creando le condizioni ideali per far sì che queste startup diventino quello che è il vero obiettivo dell’incubatore: far nascere delle scale up, cioè delle startup ad alto potenziale che però crescono in modo esponenziale e possono effettivamente diventare aziende di successo.

Quelle che chiamate i “cigni neri”…
Di idee ne arrivano molte ma riuscire a superare un percorso competitivo che porta ad essere una scale up vuol dire avere quella “anomalia”, essere il “cigno nero”, trovare quell’imprenditore che ha quella giusta ossessione ma anche la capacità di avere un team, , di raccogliere inizialmente fiducia, finanziamenti di capitali di rischio ma poi capacità di far accadere le cose… quindi poi è tutta execution, non più teoria ma capacità di mettere in pratica una visione.

Forse ci stai spiegando quali sono i criteri che vi portano a selezionare quelle 41 startup, che quindi non hanno a che fare solo con le idee ma anche con le persone che ve le presentano…Esattamente. Ci si accorge subito, si sentono le “good vibration”. Sono quelle persone che hanno quell’energia, quella capacità su cui vale la pena scommettere. L’incubatore scommette, corre i suoi rischi e monitora se le cose accadono.

Qui abbiamo capito bene qual è il vostro lavoro: si parte da una selezione, poi si investe e poi arriva una fase in cui l’azienda è pronta a prendere il volo. È quella che chiamate fase di accelerazione. Qualche numero?
A 5 anni dall’ingresso seguendo questo percorso di accelerazione selettivo a gate chiusi, il tasso di sopravvivenza è dell’82%. Oggi abbiamo 118 startup incubate il cui fatturato aggregato l’anno scorso è stato di 30 milioni di euro.  Poche le scale up però abbiamo un patrimonio di 118 attori che ci stanno provando e che producono un impatto sul territorio con 550 posti di lavoro. Posti di lavoro high-tech che cercano di disegnare il futuro.

Quali sono i settori che presidiate?
Il 40% sono iniziative industrial manufacturing, un’eccellenza della scienza politecnica, 20% ICT infrastructures, 15% smart products, 11% life sciences per tutte le competenze di bio-ingegneria.

Queste attività come vengono finanziate?
PoliHub sta sul mercato: la nostra sfida è riuscire a lavorare con dei modelli di business che trovino ricavi nell’accompagnare startup e nel lavorare con grandi imprese. Il nostro conto economico oggi ha una quasi totale prevalenza di capitali privati ma fortunatamente iniziamo ad avere un sostegno anche dalle pubbliche amministrazioni.

Rispetto ai ranking mondiali siete piazzati molto bene. Quali sono le condizioni che hanno permesso di fare la differenza?
Certamente la vicinanza col Politecnico: 43.000 studenti che arrivano con dei prototipi è un asset importante. Oggi i docenti ci credono e spingono nel creare spin off e brevetti. Poi anche il modello ha un suo valore. Siamo un hub, un punto di riferimento per chi dall’esterno vuole venire in un distretto dove c’è una densità di potenziale di innovazione. Oggi il 35% delle idee arrivano da fuori per lavorare con il Politecnico e questo rappresenta il nostro fattore critico di successo.

Le relazioni internazionali?
Essere capaci di aggredire un mercato globale non è facile e ci siamo alleati con dei giganti come la Tsinghua University di Pechino, il cui incubatore ha 5.000 startup, ne ha portate 12 in quotazione, 2 al NASDAQ. Ha fondi per finanziamenti alle startup nell’ordine di 45 miliardi di dollari. Lavorare con loro ci permette di trovare una sinergia per fare giochi a somma positiva.

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