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Dai “furti” di lattine nella raccolta differenziata del Politecnico allo sviluppo di polveri nanostrutturate che permettono di generare idrogeno dall’acqua. Stefano Dossi e Filippo Maggi, cofounder di Reactive, ci hanno raccontato la loro idea e i numerosi ambiti di utilizzo. Un sistema capace di produrre energia pulita in un ciclo chiuso di economia circolare ecocompatibile, ispirata dalla propulsione a solido utilizzata nei missili e nei lanciatori spaziali.

Chi siete?

“Reactive è una startup innovativa e spinoff del Politecnico di Milano dal 2018 ma siamo nati come startup nel 2019. Nasciamo nel laboratorio di propulsione aerospaziale del Politecnico di Milano (SPLab) ed ereditiamo una lunga esperienza in ambito propellenti, materiali energetici e polveri. Inizialmente infatti abbiamo applicato la nostra tecnologia per incrementare la reattività delle polveri metalliche usate in ambito propulsivo”, ci racconta Stefano. “Nel 2018 i contratti in ambito polveri erano talmente tanti che il laboratorio lavorava quasi soltanto su quello e stava lasciando perdere il suo core. Per questo abbiamo deciso di creare lo spinoff: per valorizzare sia le attività di ricerca del laboratorio sia, per la parte polveri, i servizi di caratterizzazione  ma anche la ricerca, lo sviluppo e la produzione di polveri altamente innovative attraverso una nuova tecnologia chiamata NHEMA (New High Energy Mechanical Activation). Si tratta di polveri, solitamente a base di alluminio, che hanno dimensioni paragonabili alle poveri standard, ma una reattività molto più alta. Questa caratteristica consente di affrontare efficacemente alcuni problemi tipici dei materiali energetici. Siamo partiti quindi dall’esplorazione spaziale, dai propellenti, dalla pirotecnica e dagli esplosivi. Poco tempo dopo ci siamo resi conto che la nostra tecnologia poteva essere utilizzata efficacemente anche in altri comparti, in particolar modo nella produzione idrogeno, su cui abbiamo scelto di concentrarci. Cans for Hydrogen è stato il primissimo progetto che applicava il NHEMA al riciclo di lattine per ottenere polveri in grado di produrre idrogeno dall’ acqua. All’epoca l’idea era ancora in un stadio embrionale perché utilizzavamo acqua con aggiunta di basse quantità di soda caustica.  Successivamente abbiamo sviluppato delle nuove polveri nanostrutturate che ci permettono di ottenere idrogeno usando solo acqua. Nel frattempo abbiamo iniziato a portare avanti una serie di dimostrazioni sul funzionamento della tecnologia per sviluppare idrogeno on-demand sia per chi ha bisogno di gas sia per generare elettricità attraverso fuel cell. Questo apre la strada all’utilizzo delle polveri in numerosi campi: dalla piccola generazione di potenza elettrica, passando per la  media scala, con motorini e auto elettriche, ad esempio, fino ai grandi impianti per la generazione di elettricità a livello industriale. Applicazioni che sarebbero molto utili nelle zone difficilmente raggiungibili con le normali reti o in caso di scenari emergenziali. Attualmente, stiamo lavorando a diversi sistemi per controllare efficacemente il rateo di produzione di idrogeno nel tempo al fine di mantenere pressioni contenute all’interno dei dispositivi di generazione. Questo è un grande vantaggio in quanto consente di ridurre i rischi degli attuali sistemi di stoccaggio in bombole o attraverso cartucce a idruri. A livello industriale invece stiamo pensando alla produzione di grandi cartucce che utilizzano tecnologie non molto distanti da quelle impiegate nel mondo aerospaziale”.

Da chi è composto il team?

“Siamo i quattro cofounder. Io (N.d.R. Stefano Dossi) sono AD e principale investigatore della tecnologia; Filippo Maggi, Docente del Politecnico di Milano è Vicepresidente; il prof. Galfetti, esperto di propulsione e combustione e il prof. Paravan che si è occupato di polveri nanometriche (che insieme alle polveri attivate sono alla base della tecnologia NHEMA). Recentemente, al nostro team si è aggiunto Alessandro Murgia che si occuperà dell’ingegnerizzazione dei diversi dispositivi”.

Produrre idrogeno dalle lattine

Da dove nasce l’idea alla base di ReActive?

L’idea di produrre idrogeno è vecchissima e nasce dai test di caratterizzazione delle polveri metalliche che si usano in propulsione. Le polveri di alluminio, infatti, sono naturalmente ricoperte da uno strato sottile di ossido metallico che impedisce il contatto tra l’atmosfera e il nucleo interno metallico. Se da un lato questo guscio conserva la restante parte di metallo, dall’altro limita l’effettivo contenuto di alluminio della polvere. In propulsione, dove l’alluminio viene bruciato, è pertanto di fondamentale importanza capire qual è l’effettivo contenuto metallico delle polveri al netto dello strato di ossido che le ricopre. Per fare questo, si prende una certa quantità di polvere di alluminio, la si avvolge in un contenitore di carta e la si immerge in una soluzione di soda caustica e acqua. La soda caustica scioglie lo strato protettivo delle polveri, ossia l’ossido di alluminio, esponendo il nucleo interno di alluminio all’acqua. L’acqua reagisce con l’alluminio ossidandolo e rilascia idrogeno. Misurando il volume di idrogeno sviluppato e conoscendo le condizioni di pressione e temperatura ambiente è possibile calcolare il contenuto metallico della polvere.

In realtà ci siamo chiesti se fosse possibile sfruttare questo fenomeno solo dopo l’accreditamento a spinoff del Politecnico di Milano. Abbiamo visto un’opportunità per produrre idrogeno a basso impatto ambientale. Da cui l’idea di presentare il progetto Cans for Hydrogen per ottenere polveri in grado di produrre idrogeno, ma utilizzando ancora la soda caustica. All’epoca in cui stavamo sviluppando il progetto, giravamo per il campus a rubare le lattine dai bidoni della raccolta differenziata per provare la nostra idea. I primi esperimenti con le lattine aumentavano a tal punto la reattività dell’alluminio che di fatto le polveri bruciavano istantaneamente al contatto con l’aria! Una volta ottimizzato il processo (e stabilizzate le polveri) abbiamo proceduto all’eliminazione della soda caustica. In particolare è stata studiata una formulazione di polvere a base di alluminio e bismuto, oltre che a qualche ingrediente segreto, in grado  di reagire al solo contatto con l’acqua. Si tratta di un processo di corrosione rapida in cui la polvere cattura l’ossigeno contenuto nella molecola di acqua, liberando l’idrogeno. Quando le polveri sono esaurite rimane un residuo, composto principalmente da allumina e ossido di bismuto che abbiamo pensato a come riutilizzare o riciclare. Oggi siamo in grado di rimettere i residui nel ciclo di produzione dell’alluminio. In questo modo potrebbe essere possibile riottenere non solo l’alluminio ma anche tutti gli altri ingredienti necessari a produrre  nuove polveri. A regime, questo sistema diventa un ciclo chiuso di economia circolare ecocompatibile che parte con le polveri e termina con la rigenerazione delle polveri stesse”.

Dalle scialuppe di salvataggio alle auto elettriche

Come immaginate il futuro di Reactive?

“Porteremo l’idrogeno  e la generazione a base di idrogeno ovunque”, afferma Filippo. “Questa tecnologia potrebbe essere disruptive nella veicolazione di idrogeno in generale. Attualmente l’idrogeno viene trasportato in bombole da 200 bar in su, all’interno delle automobili viene stoccato a 700 bar: noi portiamo l’idrogeno con un sistema che lavora a pressione ambiente, che non ha idrogeno di base ma che produce idrogeno quando e dove decido io, attivando la reazione solo con acqua. Potrà servire all’esploratore in difficoltà che deve ricaricare il suo GPS, a una scialuppa di salvataggio che deve accendere il beacon di individuazione, a un laboratorio universitario, a un’automobile elettrica che ha finito la carica e ha bisogno di un range extender”.

Come mai avete scelto PoliHub? In che modo vi è utile?

“Siete utilissimi! Abbiamo scelto PoliHub perché il team di Reactive ha una fortissima capacità tecnico-scientifica. Ma arrivare al business è significato uscire della comfort zone”, racconta Stefano. “In PoliHub abbiamo visto la possibilità di accedere a competenze che noi non avevamo, di darci una visione differente e capire come inserire la tecnologia sul mercato. Per noi il Compass è di una utilità devastante perché ci permette di ampliare la nostra idea del mercato anche dal punto di vista legale, di marketing o di come gestire il prodotto stesso. Quando ho sentito la prima volta parlare di valore non tangibile mi veniva da piangere!”. “Fare startup vuol dire occuparsi al 20% della tecnologia e il resto di tutto ciò che non è tecnologia. Avevamo bisogno di capire quell’80%!”, conferma Filippo.

Dalla pandemia sfide e opportunità

 La pandemia per voi ha rappresentato un ostacolo o un’opportunità?

“Ha rappresentato un’opportunità e una sfida! Ha bloccato tutta una serie di progetti e inizialmente questo ci ha lasciato nel panico. Dopo di che è iniziata la sfida perché la prima conseguenza del Covid-19 è stata la penuria di materiali necessari alla produzione di dispositiv medici e dispositivi di protezione individuale per la protezione delle persone. Quando il Politecnico si è impegnato nel progetto PoliMask anche noi abbiamo voluto dare il nostro contributo sfruttando la nostra conoscenza delle polveri per realizzare un sangue artificiale che servisse a testarele mascherine chirurgiche. Quando è finito il progetto abbiamo poi iniziato a ricevere richieste di fornitura del prodotto da parte di laboratori esterni”.

“Ci siamo trovati ad avere il core business bloccato, abbiamo avuto l’occasione di aiutare il Politecnico e abbiamo colto un’opportunità nuova.  Opportunità che abbiamo colto e che stiamo tenendo aperta anche in un periodo disgraziato come quello della pandemia. Attualmente siamo tra i pochissimi al mondo a produrre sangue artificiale”, chiude Filippo.


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